Nell’augurare una serena pausa estiva a tutte e tutti proponiamo l’articolo del giornalista Fabio Pizzul, contenuto nel Rapporto 2024 “Donne gravemente sfruttate. Il diritto di essere protagoniste”, nel quale vi è una lettura della situazione attuale dell’informazione, non informazione e della realtà del fenomeno della tratta.

Di Fabio Pizzul

Il tema dello sfruttamento femminile non sempre trova adeguati spazi sui media e viene così sottodimensionato e sottovalutato da un’opinione pubblica tendenzialmente superficiale e molto influenzata dalle ondate di comunicazione emozionale. In realtà, di donne si parla molto sui media per un altro dramma che affligge la nostra società, i cosiddetti femminicidi. La violenza contro le donne è un macigno su tutti noi che non sembra destinato a scomparire o ad alleviarsi: nonostante le reazioni corali di sdegno di fronte alla continua e assurda violenza contro le donne, i femminicidi si moltiplicano con una regolarità sconfortante. Nel novembre 2023, dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, messo in atto in circostanze allucinanti dal suo fidanzato Filippo Turetta, c’è stata una reazione popolare molto significativa, che lasciava sperare che cambiasse qualcosa. Le piazze piene e le unanimi dichiarazioni di sdegno facevano pensare a una reale svolta, che però non si è verificata. Di femminicidi, giustamente, si parla molto, spesso con una tendenza a indulgere in particolari che non sono rispettosi della dignità delle vittime, ma l’attenzione su questi drammi rischia di mettere in ombra altre forme di violenza e sopraffazione nei confronti delle donne.


Il rischio dell’oblio
Lo sfruttamento delle donne è una grave forma di violenza, ma non sempre l’informazione ne dà conto in maniera puntuale. L’impressione è che ci sia una sorta di reticenza nell’esplorare i tanti mondi in cui le donne sono vittime di sfruttamento, come se non fossero degni di nota, meritevoli di un’effettiva attenzione da parte dei media, troppo difficili da percepire e raccontare, insomma, non riescono a entrare nell’agenda dei media e a fare notizia. Da dove nasce questa omissione? L’impressione è che la nostra cultura, prima ancora della nostra informazione, dia per scontata una quota di inevitabile sopraffazione nei confronti delle donne. L’immagine dello sfruttamento della donna proposta dai media si concentra in specifici settori, considerati come “esclusivi”, come quello della cura alla persona e quello della prostituzione. Al di fuori di questi “mondi” si tende a lasciar passare l’idea che lo sfruttamento non sia tale, ma rappresenti solo un faticoso rapporto con condizioni che vengono ritenute normali o inevitabili, soprattutto se le donne garantiscono il funzionamento di servizi che consideriamo necessari al buon andamento della nostra società. Quest’amnesia non è altro che una delle manifestazioni dei numerosi stereotipi legati ai ruoli di genere che caratterizzano la nostra società. Ne deriva una rappresentazione falsata di molte zone d’ombra che nascondono pesanti forme di sfruttamento ai danni delle donne, come racconta con precisione e significative moli di dati anche questo Rapporto. La reticenza dei media contribuisce a rendere molto faticose le azioni di emersione del fenomeno: in un mondo estremamente mediatizzato, in cui rischia di essere vero solo ciò che viene raccontato o rappresentato, il fatto di non parlare di alcune forme di sfruttamento femminile aumenta di molto il rischio che non vengano percepite e, dunque, intercettate situazioni di sofferenza che riguardano migliaia di donne, anche nel nostro paese.


La condizione delle vittime
Un elemento che potrebbe spiegare l’assenza dello sfruttamento delle donne nell’agenda mediatica italiana è la condizione delle vittime. Si tratta spesso di donne straniere con percorsi migratori complicati e il più delle volte drammatici; donne con poche risorse per rappresentare la loro condizione e con poca voce per raccontarla. Sono donne che potremmo definire nascoste, perché separate dalle dinamiche sociali delle nostre città, inserite in circuiti paralleli che fatichiamo a intercettare e di cui non siamo consapevoli. Potremmo definire quella della maggior parte delle donne sfruttate una rimozione inconsapevole da parte dell’opinione pubblica e dei media, incapaci di trovare occasioni per raccontare questi drammi nascosti che si consumano accanto a noi. La distrazione si alimenta anche per la grave mancanza di dati sulle vittime e sulle dimensioni delle reti di cui sono prigioniere. Nonostante l’impegno di molte associazioni, rimangono carenti sia le raccolte di dati sia la metodologia, soprattutto per la difficoltà di effettuare comparazioni credibili con solide serie storiche. Si tratta di carenze che riguardano i diversi livelli territoriali e istituzionali e non consentono di costruire reali approfondimenti su tendenze e prospettive del fenomeno.


L’assenza di allarme sociale
Lo sfruttamento delle donne non crea eccessivo allarme sociale e questo può essere un altro elemento che lo porta fuori dai radar di media, che sono perennemente alla ricerca di notizie eclatanti, che possano colpire i cittadini e sollecitare tasti legati alla paura per la propria incolumità. Le donne sfruttate, il più delle volte, non mettono in atto azioni ritenute minacciose per gli altri e non rientrano, dunque, tra i soggetti funzionali a creare allarme sociale in un’opinione pubblica che tende ormai a misurare qualsiasi notizia in base alla rilevanza o alla minaccia che può rappresentare per la propria sfera personale di sicurezza. Nella misura in cui le vittime non rappresentano una minaccia per me, non sono considerate pericolose e, per questo, neppure degne di raccogliere una qualche attenzione. Un meccanismo perverso, che si accompagna a un altro aspetto altrettanto foriero di meccanismi di oblio: nei confronti delle donne vittime di grave sfruttamento difficilmente scatta anche un meccanismo di identificazione, che solitamente porta a considerare rilevante una vicenda. Quanto più un individuo ritiene che la situazione problematica possa, presto o tardi, riguardarlo da vicino, tanto più finisce per interessarsi e identificarsi nelle vittime e proiettare su di sé le loro sofferenze, dando vita a fenomeni si identificazione e compassione. Le vittime della tratta e dello sfruttamento sono considerate il più delle volte come culturalmente e socialmente lontanissime da noi e non suscitano quel meccanismo di identificazione che diventa ormai indispensabile per creare condizioni di attenzione nei loro confronti. Il livello mediatico non fa che amplificare questa dinamica, relegando le notizie relative alla tratta in sezioni secondarie dei notiziari o, al più, in spazi che vengono considerati molto lontani dal vissuto emotivo dei cittadini e, di conseguenza, poco interessanti e meritevoli di attenzione.


La paura come barriera
Le paure, da cui siamo ormai invasi a causa di un martellamento insistito da parte dei media e della comunicazione politica, contribuiscono a creare condizioni ulteriormente negative per chi tenta di far affiorare nella consapevolezza dell’opinione pubblica il dramma dello sfruttamento femminile nelle sue varie manifestazioni. La paura crea diffidenza e innalza barriere nei confronti della possibile e umanamente necessaria pietà verso chi si trova in condizioni di fragilità e di sfruttamento. Vittime che rimangono nascoste e, per molti versi, misteriose, incrementano la diffidenza che porta con sé l’idea che possano diventare minacciose per noi. Da oggetto di attenzione per la loro condizione, le donne si trasformano così in entità minacciose, in quanto a noi ignote e radicalmente lontane dalla nostra condizione. Tutto ciò che è diverso, lontano, misterioso si trasforma facilmente in estraneo e minaccioso, meritevole pertanto di allontanamento cautelativo dalla nostra quotidianità che rischierebbe di venire, se non minacciata, almeno disturbata da qualcosa che non siamo in grado di percepire se non con un certo disagio. La sostanziale diversità culturale, sociale ed etnica delle donne vittime della tratta o dello sfruttamento lavorativo contribuisce ulteriormente ad allontanare le loro storie dall’attenzione dell’opinione pubblica. In modo subdolo, ma efficace, si è fatta strada l’idea che le vittime siano donne che in qualche modo non meritano di avere percorsi di vita ordinari, tali da consentire loro di costruirsi percorsi familiari e lavorativi ordinari, quasi che si trovassero in un’inferiorità sociale legata alla loro origine e al loro percorso di vita. Se ci pensiamo, questo accade anche con molte donne coinvolte nei percorsi di cura nelle nostre famiglie, le cosiddette badanti o collaboratrici familiari. In una dimensione, senza alcun dubbio, meno drammatica rispetto a quella configurata dalla tratta e dal grave sfruttamento, si tratta di persone che si trovano a dover abbandonare le loro famiglie e a essere trapiantate in una situazione che consente loro la possibilità di guadagnare e sostenere così la propria famiglia nel paese di origine, ma le colloca in un contesto che le priva di socialità, relazioni e prospettive di autentica realizzazione personale. Non mi pare che ci sia grande consapevolezza di questa realtà che, a voler essere rigorosi, sconfina spesso in uno sfruttamento lavorativo che cancella la dignità delle donne, soprattutto se il lavoro non è regolato secondo adeguati contratti.


Una scarsa informazione
Questa mancata considerazione e, prima ancora, percezione della condizione delle donne sfruttate trova un suo corrispettivo anche nella scarsa informazione e consapevolezza delle stesse vittime dello sfruttamento. Le donne sfruttate sono spesso ingannate e non hanno a disposizione le informazioni di base per poter provare a uscire dalla loro situazione. Fornire informazione alle donne nei paesi di origine rappresenterebbe un’importante misura di prevenzione. Il primo tema dovrebbe essere quello di informare in merito alle possibilità e alle limitazioni dell’immigrazione legale e sui pericoli di sfruttamento legati all’immigrazione illegale. Questo potrebbe garantire loro una maggiore consapevolezza dei rischi a cui si sottopongono nel momento in cui si mettono nell’ottica di intraprendere un percorso migratorio. Molte Ong stanno già svolgendo un prezioso lavoro per l’informazione e l’emancipazione femminile in diversi territori, ma la loro attività dovrebbe essere consolidata ed estesa. Le Ong che si occupano di diritti delle donne hanno una conoscenza approfondita delle condizioni locali e, grazie alla loro esperienza nei paesi di origine, possono davvero svolgere un ruolo di primo piano nell’informazione e nella sensibilizzazione delle donne rispetto ai rischi che presentano percorsi migratori che fanno balenare ipotesi di lavoro, ma si trasformano spesso in veri e propri calvari per maltrattamenti, abusi e successivo sfruttamento. Queste pratiche vengono attuate anche con l’inganno e il ricatto nei confronti delle famiglie di origine. Tema importante è, poi, l’informazione delle donne vittime di situazione di sfruttamento che già si trovano in territorio italiano. Queste devono essere informate sulle possibilità di assistenza di cui possono beneficiare. I servizi sociali e sanitari e le organizzazioni del Terzo settore dovrebbero provvedere a questo, ma spesso si fatica a trovare i canali giusti per un’opera informativa di questo tipo. Al di là di qualche campagna di informazione istituzionale promossa dal governo o dalle istituzioni locali, i media non hanno mai dato molto spazio all’informazione su questi temi, se non a rapido corollario di notizie che riguardano casi particolarmente clamorosi che assurgono agli onori della cronaca. D’altronde, le donne vittime di sfruttamento, in quanto “invisibili” per le ragioni che abbiamo provato a evocare in precedenza, non vengono considerate un target per i media, che tendono a definire le proprie priorità editoriali sulla base dell’analisi del proprio pubblico di riferimento. Non mancano situazioni degne di nota, penso a testate come Avvenire o il giornale di strada Scarp de’ tenis, o a trasmissioni che dimostrano una sensibilità particolare nello scovare e raccontare storie di marginalità, ma rimangono nel novero delle virtuose eccezioni.


Come si informano le vittime?
C’è anche da chiedersi a quali canali informativi attingano le donne vittime di sfruttamento. Non ho elementi concreti per suffragare queste mie considerazioni, ma ho la sensazione che uno dei canali principali possa essere quello dei social network, che non sono però fonti attendibili per il meccanismo delle “bolle filtro”, che fa sì che ci si parli tra ristretti circoli di “amici” e non si abbia la garanzia della veridicità delle notizie. Spesso, al contrario, i social diventano delle autentiche trappole per le vittime, che si trovano di fronte a mistificazioni (fake news) o a veri e propri inganni veicolati da questi canali. L’impossibilità di avere certezze riguardo l’identità di coloro che frequentano i social network incrementa ulteriormente questa nebbia informativa, che rischia di avvolgere coloro che sono alla ricerca di appigli per poter uscire da condizioni di sfruttamento. Alla base di questa difficoltà a informarsi da parte delle donne vittime di sfruttamento ci sono ostacoli di varia natura, che vale la pena passare rapidamente in rassegna. Anzitutto le difficoltà linguistiche. Tra le donne straniere, che rappresentano la maggioranza di coloro che sono sfruttate, la lingua italiana non è così diffusa e questo crea una barriera difficile da superare per molte di loro, che non hanno strumenti sufficienti per comprendere le informazioni a loro destinate. Una seconda barriera è rappresentata dal fatto che il più delle volte le informazioni vengono filtrate da altre persone, che non sempre hanno interesse a che le donne possano essere informate correttamente sui loro diritti e sulle possibilità loro offerte per tentare di uscire dalla condizione di sfruttamento. Un pesante velo rispetto alle informazioni utili che si fonda anche sulla diffidenza e sul sospetto che attanaglia le vittime rispetto a qualsiasi fonte di informazione: è difficile potersi fidare di qualcuno quando si vive in condizioni di sfruttamento. La fiducia è elemento fondamentale di qualsiasi relazione di aiuto ed è alla base anche della possibilità di poter ricevere informazioni che siano davvero utili per cambiare la propria difficile situazione personale. è un ulteriore elemento di fragilità a cui sono sottoposte le donne e diventa anche strumento nelle mani dei loro sfruttatori per mantenerle in condizione di minorità. Non è semplice, come ben sanno gli operatori e le operatrici dei servizi di assistenza alle donne vittime di sfruttamento, creare fiducia e costruire conseguenti relazioni di aiuto, anche perché nelle donne viene inculcata l’idea che qualsiasi tentativo di emancipazione, se scoperto, possa trasformarsi in una causa di possibile vendetta nei confronti delle famiglie di origine.

Il ruolo dei comunicatori

Di fronte a tutte queste difficoltà di comunicazione, pare utile soffermarsi sulle attenzioni che dovrebbero avere i giornalisti nel proporre notizie riguardo situazioni di grave sfruttamento delle donne per evitare che sensazionalismo o scarso rispetto per la dignità delle persone coinvolte contribuiscano a rendere ancora più profonde la sofferenza o l’emarginazione. Il rischio concreto, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, è che gli organi di informazione si occupino delle vicende dello sfruttamento solo per aumentare l’audience e questo induce i giornalisti a utilizzare modalità comunicative che non rispondono certo alla necessaria cautela nei confronti delle vittime. Una scorretta presentazione di situazioni di emarginazione e sfruttamento rischia di approfondire ulteriormente la sofferenza delle vittime o di creare le condizioni perché sia per loro ancora più difficile affrancarsi dalla situazione in cui si trovano. è necessario, pertanto, che si ponga la massima attenzione nel dare notizie riguardo la condizione di sfruttamento, anche per non mettere le donne in ulteriore situazione di pericolo. Non sempre i comunicatori manifestano sensibilità per questi delicati aspetti e, quando non è coperto dall’oblio, lo sfruttamento delle donne rischia di essere addirittura approfondito per le modalità con cui viene raccontato.


Le regole deontologiche
Eppure, esistono precise indicazioni al riguardo, contenute nelle diverse “carte” che gli organi di categoria hanno elaborato negli anni. Tutte queste regole deontologiche sono confluite nel cosiddetto Testo unico dei doveri del giornalista, approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed entrato in vigore il 1° gennaio 2021. In esso si legge, tra l’altro: «Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale» il giornalista è tenuto ad avere attenzioni particolari per evitare che il racconto che egli offre indulga in particolari o descrizioni che potrebbero rendere ancora più problematica la situazione di tutti coloro che sono coinvolte nella vicenda. Segue un elenco di raccomandazioni.

No agli stereotipi
La prima riguarda la necessità di «evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona». Può sembrare un’indicazione ovvia, ma di frequente si incappa in questi errori anche solo quando si forniscono dettagli insistiti sull’abbigliamento, quasi a volerne (anche solo inconsapevolmente) indicare l’inadeguatezza, o si evoca qualche imprudenza o superficialità da parte delle vittime. La stessa cosa può accadere anche nel momento in cui, in servizi televisivi, si propongono immagini che indugiano eccessivamente su particolari che non restituiscono correttamente il contesto in cui sono avvenuti i fatti. Un rischio che si affaccia anche quando si utilizzano le cosiddette “immagini di repertorio”, quando non si dispone di materiale di prima mano. Queste inducono in generalizzazioni che non rendono ragione della specificità delle singole situazioni finendo per generare stereotipi o categorizzazioni che non sono rispettose del dramma delle singole donne. Le vittime portano con sé sempre storie particolari e personali che le situazioni di sfruttamento tendono a cancellare. è, d’altronde, facile ravvisare come il racconto di storie singolari e personali tenda a suscitare la comprensione delle difficoltà vissute dalle vittime e a creare possibile immedesimazione con loro, mentre ogni generalizzazione provoca un distacco e un conseguente giudizio negativo nei confronti delle vittime, quasi a dire che, in qualche modo, si siano cercate le situazioni in cui si trovano. Spesso questo diventa anche un modo per esorcizzare la paura di trovarsi coinvolti in situazioni simili, marcando la distanza tra la “nostra” e la “loro” situazione.


Rispetto e correttezza
Una seconda raccomandazione attiene al linguaggio che si esorta debba essere «rispettoso, corretto e consapevole». Il rispetto è ciò che si deve alle persone, quali sono sempre e comunque le vittime. La necessità di sintetizzare al massimo le notizie, di risultare comprensibili e la scarsa conoscenza delle dinamiche profonde dei fenomeni di sfruttamento portano spesso all’utilizzo di termini impropri o eccessivamente semplicistici che finiscono per proporre, anche solo implicitamente, un giudizio negativo nei confronti delle donne vittime di sfruttamento. Quando si parla di linguaggio corretto si fa riferimento alla necessità di essere precisi rispetto alla condizione effettiva delle donne, al loro status giuridico, alla provenienza, alla nazionalità, solo per citare alcune possibili categorie descrittive che portano con sé una vasta gamma di possibili categorizzazioni. Non è banale scegliere anche solo un sostantivo o un aggettivo, soprattutto se lo spazio a disposizione per dare la notizia si riduce a poche righe o a pochi secondi di un servizio radiofonico o televisivo. Il linguaggio consapevole ha a che fare, invece, con le possibili conseguenze dell’informazione che si offre: mi limito a citare il possibile danno arrecato dall’indulgere in dettagli che rendono individuabili donne che sono oggetto di particolari forme di tutela o protezione. Si tratta di pesanti mancanze di rispetto nei confronti della condizione delle donne e di azioni anche passibili di sanzioni dal punto di vista giudiziario.


Essenzialità e continenza
Altra indicazione deontologica riguarda la necessità di attenersi «all’essenzialità della notizia e alla continenza». Espressioni, almeno in parte, oscure che indicano la necessità di non lasciarsi andare a descrizioni eccessivamente pruriginose che, con l’idea di suscitare l’interesse dei lettori, sconfinino nel romanzesco. Tanto i dettagli sono fondamentali in un’opera letteraria, quanto possono essere invece devastanti in un articolo di cronaca, che piomba sulla vittima di sfruttamento come un ulteriore e pesante stigma. Per non parlare dell’utilizzo di fotografie o immagini che, non riferendosi direttamente al fatto di cronaca trattato, possono indirizzare il giudizio dello spettatore, allontanandolo, come già si diceva, dalla necessaria comprensione della singolarità della situazione delle vittime.


Non spettacolarizzare la violenza
Si passa, quindi, a raccomandare «attenzione a non alimentare la spettacolarizzazione della violenza». è, se volete, un invito preciso a non indulgere a quello che potrebbe essere definito “effetto Gomorra”, facendo riferimento all’omonima fiction, ovvero a una sorta di implicita giustificazione di coloro che promuovono lo sfruttamento, ponendoli in una luce non del tutto negativa o costruendone un’immagine degna di qualche considerazione. L’eccesiva indulgenza nei confronti della violenza provoca anche assuefazione a essa e induce a credere che possa essere un metodo per regolare relazioni problematiche o per gestire persone che non intendono uniformarsi alla regola del più forte. Non è difficile comprendere come un qualsiasi cedimento a queste indebite tentazioni si trasformi in un ulteriore pesante ipoteca sulle già drammatiche condizioni delle vittime.


Non sminuire la gravità
C’è un’ultima indicazione compresa nell’elenco di raccomandazioni per i giornalisti che si trovino a dover trattare notizie che hanno a che fare con violenza, sfruttamento o discriminazione nei confronti delle donne. Anche in questo caso, l’indicazione è molto chiara: il giornalista «Non usi espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso». Non è sempre facile rendere compiutamente la pesantezza delle situazioni che si debbono raccontare, il rischio di semplificare, banalizzare, sminuire è sempre in agguato, anche perché il fatto di cronaca con cui si ha a che fare è solo l’ultimo anello di una catena di sfruttamento spesso molto complessa e articolata, che non è sempre facile ricostruire e, di conseguenza, raccontare. Una notizia data con superficialità e approssimazione finisce per far rientrare anche episodi di grave sfruttamento all’interno di una realtà normalizzata che viene poi percepita come ineluttabile e, di conseguenza, non certo degna di allarme o anche solo di attenzione. Esistono, dunque, come abbiamo avuto modo di sottolineare, regole precise, ma non sempre vengono percepite come vincolanti o ritenute applicabili a situazioni che non si percepiscono come potenzialmente problematiche.


Vittime sospese
Le vittime di sfruttamento risultano così sospese tra l’oblio, ovvero il fatto che non si parli mai della loro situazione che risulta dimenticata e nascosta, e la strumentalizzazione di un’informazione che si occupa di loro solo in chiave scandalistica o superficiale. Per questo è importante offrire ai giornalisti e a chiunque si occupi di comunicazione occasioni di formazione per conoscere il dramma della tratta e dello sfruttamento. Secondo le regole deontologiche per il racconto della violenza contro le donne, c’è anche uno stile, composto da diverse attenzioni, che i giornalisti debbono avere per affrontare questi temi. L’invito è, anzitutto, a narrare l’episodio di sfruttamento dal punto di vista della vittima, non del colpevole; si tratta poi di raccontare tutti i casi di violenza evidenziando storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di uscire dallo sfruttamento; è bene, infine, che sia raccontata la violenza in tutte le sue implicazioni fisiche, economiche, psicologiche, giuridiche, culturali. Acquisire la consapevolezza dell’importanza di un corretto modo di parlare di sfruttamento delle donne è un modo per aiutare le vittime a uscire dalla loro condizione sospesa ed è una strada importante perché aumenti la consapevolezza dell’opinione pubblica rispetto alla necessità che si ponga un argine a un vero e proprio scandalo nascosto che pesa sulla coscienza delle nostre società occidentali.